Musica, stereotipi di genere e pregiudizi: la parola alla scienziata che studia il cervello, Alice Mado Proverbio

È una macchina meravigliosa il nostro cervello. Sta comodamente in una mano adulta aperta, come 2 pugni. Il cervello è l’organo che più di ogni altro determina ogni aspetto della nostra vita: i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri ricordi, il nostro umore… Grazie all’interazione tra le sue cellule – parliamo di 86 miliardi di neuroni – coordina in pratica tutte le funzioni del nostro corpo.

Alice Mado Proverbio ne è rimasta affascinata fin dagli studi universitari, ma ha deciso che il cervello sarebbe diventato l’oggetto del suo lavoro andando avanti nella formazione e muovendo i primi passi nel mondo della ricerca. Determinanti gli anni al Center for Neuroscience dell’Università di California: “Lì ho misurato per la prima volta l’attivazione cerebrale di persone sane e pazienti con il cervello diviso (split-brain)”.

alice mado proverbio neuroscienze cognitive della musica

E così da allora la scienziata studia le basi neurobiologiche della cognizione. All’Università Milano Bicocca coordina il Laboratorio di Elettrofisiologia cognitiva ed è docente di Neuroscienze cognitive.

In pratica, Alice Mado Proverbio indaga il rapporto tra mente e cervello, tra sistema nervoso e processi mentali, analizza le alterazioni dell’attività elettrica dei neuroni e delle sinapsi. Attraverso l’uso dell’elettroencefalografia e della risonanza magnetica funzionale, monitora inoltre quali strutture cerebrali si attivano quando ascoltiamo la musica, interagiamo con gli altri o svolgiamo altre attività.

Di fatto quali sono i suoi “ferri del mestiere” per studiare il cervello in azione?

«Quando sono andata in California ho iniziato a occuparmi di cervello come psicofisiologa e la psicofisiologia si basa su strumenti elettroencefalografici abbastanza semplici. Di fatto, per misurare l’attività elettrica del cervello bastano dei sensori elettrici, quindi degli elettrodi posti sulla superficie dello scalpo che misurano le differenze di potenziale che derivano dall’attività cerebrale. In altre parole gli elettrodi rivelano a livello di millisecondo quando si attivano le strutture neurali.

Ovviamente, negli anni sono stati messi a punto tanti strumenti che ci consentono di studiare il cervello e il rapporto tra sistema nervoso e processi mentali, come la PET, la risonanza magnetica funzionale e la magnetoencefalografia. Poiché hanno un potere di localizzazione delle regioni cerebrali molto preciso, ci consentono di studiare i circuiti, cioè le strutture interconnesse, coinvolti nelle funzioni superiori.

Di fatto nel mio laboratorio coniughiamo i potenziali elettrici prodotti dagli scambi neuronali con le neuroimmagini ottenute con la risonanza magnetica e così siamo in grado di individuare le regioni all’interno della scatola cranica dalle quali scaturisce il potenziale bioelettrico che misuriamo in superficie».

Individuate cioè le sorgenti interne al cervello, i generatori di questi potenziali elettrici e siete in grado di misurare quando, come e perché si attivano?

«Esattamente. In altre parole, qualunque funzione mentale stiamo investigando, che sia l’ascolto della musica, la comprensione del linguaggio o la percezione dei volti, osserviamo come si attiva il cervello e come elabora le informazioni».

neuroscienze esplorando il cervello
E proprio combinando tecniche diverse, oggi è possibile studiare una macchina così complessa. Complessa a tal punto che dobbiamo ancora capire completamente i prodigiosi ingranaggi che collegano mente e cervello.

«Sì, il nostro cervello è una macchina straordinariamente complessa che si è evoluta per elaborare informazioni via via più complesse. C’è un cervello antico, che controlla l’istinto di sopravvivenza, quindi la nutrizione, l’accoppiamento e i vari riflessi difensivi. C’è un cervello più recente, che controlla la sfera emotiva, regolando quindi le nostre emozioni. E poi c’è la corteccia, che in termini evolutivi è la struttura più recente, quella che regola il nostro convivere sociale. E’ in sostanza la sede del cervello sociale e del cervello morale. Entrambi si basano su circuiti che coinvolgono soprattutto la parte anteriore del cervello, ovvero la corteccia prefrontale, mediale e orbitofrontale. Sono proprio queste le aree più sviluppate nell’essere umano e sono quelle che ci consentono di parlare, di astrarre…».

studiare il cervello umano
Il pensiero, la comprensione e l’apprendimento: lo studio dei meccanismi cerebrali alla base della cognizione sono al centro delle attività del suo laboratorio all’Università Bicocca.

«Sì, siamo uno dei centri italiani che si occupa di cognizione sociale, quell’insieme cioè di abilità che hanno a che vedere con la nostra capacità di interagire con gli altri, di comprenderne lo stato emotivo osservandone per esempio l’espressione facciale, di attribuire una mente all’altro (mentalizzazione), di provare empatia e quindi di immedesimarsi nell’altro. Studiamo inoltre il cervello morale, quell’insieme di attitudini e istinti che regola il nostro comportamento. Mi riferisco al senso di colpa, al senso dell’etica, della morale, al senso della vergogna».

Le neuroscienze studiano anche gli stereotipi e i pregiudizi che, se da un lato sono frutto del nostro convivere sociale, dall’altro condizionano il nostro vivere sociale.

«Sì, nell’investigare le interrelazioni tra mente e cervello indaghiamo la presenza di pregiudizi di genere e razziali e le basi neurali della rappresentazione degli stereotipi.

neuroscienze cognitive

In effetti, pregiudizi e stereotipi si assorbono inconsapevolmente e non dipendono dal nostro cervello morale, da quello cioè che noi riteniamo essere giusto o sbagliato. Questo significa che anche chi è assolutamente convinto che tutte le persone debbano avere uguali diritti e stesse opportunità di carriera, finisce inconsapevolmente con l’avere aspettative non eque rispetto, ad esempio, all’avanzamento di carriera di un uomo e di una donna, se risulta immerso in un contesto sociale sfalsato da stereotipi e pregiudizi.

Tutto questo noi possiamo studiarlo osservando l’attività cerebrale attraverso la lente della neuroscienza».

In che modo i pregiudizi sono connessi all’attività cerebrale?

«Gli stereotipi si fissano in precise aree del cervello: nella corteccia prefrontale mediale. A tal punto, per esempio, che all’ascolto di frasi che violano i cliché uomo-donna, tali circuiti neurali inviano segnali di errore, come quando ci troviamo di fronte a una frase insensata. È quello che abbiamo riscontrato in laboratorio. Abbiamo registrato l’attività cerebrale delle persone mentre ascoltavano centinaia di frasi congruenti con gli stereotipi di genere e centinaia di frasi che invece contrastavano con gli stereotipi più diffusi.

Alcune in particolare erano costruite ad arte per creare determinate aspettative e poi confermare o violare pregiudizi di genere. Abbiamo così registrato le risposte bioelettriche di errore attivate dall’ascolto di frasi del tipo: “Preparò il sugo e si fece la barba”; “Stese i panni e raggiunse la moglie”; “Il notaio sta allattando”; “L’ingegnere ha macchiato la sua gonna”».

In pratica, il cervello capta un errore in frasi del genere perché ritiene più plausibile che a stendere i panni e a cucinare sia una donna e che l’ingegneria sia roba da uomini?

«La figura femminile nel discorso pubblico è quasi sempre associata alla seduzione e all’accudimento, come se apparire bella e avvenente e prendersi cura dell’altro fossero le uniche e auspicabili possibilità di affermazione per una donna. Raramente o mai invece la figura femminile è associata all’autorevolezza e alla leadership. Va da sé quindi che tutti finiscono con avere delle aspettative, inconsapevoli, alimentate proprio da quello che viene veicolato attraverso giornali, televisioni, immagini pubblicitarie, libri di testo…. In altre parole, quello a cui siamo ripetutamente esposti condiziona il nostro ritenere plausibile che l’ingegneria sia un terreno di gioco maschile e che dietro una cattedra alla scuola primaria ci sia una donna. Questo accade perché il cervello accumula costantemente informazioni, è il suo lavoro. E in base alle informazioni accumulate effettua incessanti previsioni statistiche».

Professoressa, in pratica il nostro cervello è predittivo: è una macchina che fa previsioni sulla base dell’esperienza passata. In altre parole un ambiente fortemente influenzato dagli stereotipi condiziona il modo in cui percepiamo gli altri e le nostre azioni, dando più spazio alle discriminazioni. Questo però significa anche che possiamo agire per scardinare gli stereotipi e che i pregiudizi non sono immutabili. Corretto?

«Viviamo in una società sempre più mediatizzata. I media ci forniscono una finestra sul mondo, per cui quello che mostrano e ci trasmettono è fondamentale nel definire i contorni della realtà in cui viviamo. Gli stereotipi infatti sono delle rappresentazioni della realtà che si formano sulla base delle informazioni a cui siamo esposti. Proprio per questo ciò che leggiamo e vediamo gioca un ruolo chiave nel veicolare e consolidare gli stereotipi. La continua esposizione a contenuti gender-biased o racial-biased crea inevitabilmente una rappresentazione distorta della realtà. Per questo come dicevo hanno un ruolo importante i media, i libri scolastici, le pubblicità…

Qualunque immagine o testo può contenere un bias, un’associazione stereotipata, praticamente su qualsiasi cosa. Non solo in merito al binomio genere-competenze, ma anche per esempio al binomio etnie-professioni. Mi spiego: se il cervello non è abituato a vedere un neurochirurgo nero, allora statisticamente non si aspetta che una persona nera possa fare il neurochirurgo. Questo significa che un maggior controllo di cosa si scrive e delle immagini che vengono mostrate pubblicamente può essere d’aiuto per scardinare stereotipi e pregiudizi.

A questo proposito, in laboratorio abbiamo studiato i pregiudizi etnici su un campione di studenti universitari. Abbiamo riscontrato che è possibile modulare l’Other Race Effect, cioè quella reazione inconscia difensiva di fronte a persone che identifichiamo come non appartenenti al nostro gruppo etnico, modificando gli stimoli a cui siamo esposti».

neuroimaging studiare il cervello
C’è quindi una forte connessione tra mente, cervello e stereotipi che possiamo studiare attraverso le neuroscienze?

«Sì, è così. In pratica, in laboratorio misuriamo l’attivazione dell’amigdala e la risposta di trasalimento, quel riflesso che si manifesta con la chiusura repentina degli occhi e la contrazione dei muscoli facciali, tipicamente associato a stimoli considerati negativi o pericolosi. Grazie alle neuroscienze, possiamo valutare se si riesce a modificare la risposta dell’amigdala e attenuare la reazione inconscia di paura, manipolando gli stimoli, cioè mostrando stimoli non racial-biased ad esempio.

Nell’esperimento cui facevo riferimento, prima di mostrare ai partecipanti volti di afroamericani, indiani, cinesi, abbiamo mostrato video di centinaia di persone di etnia non caucasica che svolgevano professioni di prestigio (come l’astronauta, lo scienziato) o che contraddicevano lo stereotipo (per esempio islamici in marcia per la pace o contro la violenza sulle donne). Abbiamo scoperto che la visione di tali video diminuiva se non addirittura annullava la risposta bioelettrica di attivazione di aree cerebrali legate al pregiudizio. Questo spiega appunto che vivere in un contesto in cui l’etnia non caucasica non è continuamente associata a delinquenza, povertà e degrado diminuisce la relativa risposta pregiudiziale».

Professoressa, altro ambito di suo interesse è la musica. Da anni infatti studia i meccanismi cerebrali alla base della produzione e della comprensione musicale. Sull’argomento ha scritto anche un libro: “Neuroscienze cognitive della musica. Il cervello musicale tra arte e scienza”. Allora, perché ci piace la musica? E perché all’attività musicale sono attribuiti molti benefici?

«Ci piace la musica perché l’ascolto della musica stimola il giro temporale superiore e attiva il centro del piacere, il nucleo accumbens. Il sistema dopaminergico produce quindi endorfine e oppioidi, dandoci una sensazione fisica di piacere. E poi la musica è uno dei primi linguaggi comunicativi usato fin dagli albori dell’umanità. Si ritiene infatti che l’Homo neanderthalensis cantasse prima ancora di essere in grado di parlare. In altre parole, si ritiene che comunicasse cantando, modulando i suoni e non usando il linguaggio fonemico. Quindi, possiamo dire che il nostro cervello è musicale dalla nascita: si è plasmato sulla capacità di usare i suoni per comunicare.

Oggi sappiamo che suonare, ascoltare musica, cantare ha effetti straordinari sul cervello, a partire dalle ultime settimane di vita del feto fino all’età senile. La musica ci consente di trasmettere emozioni, è in grado di modificare lo stato d’animo di chi ascolta e induce emozioni positive, insomma migliora l’umore. Sono stati riscontrati effetti benefici nelle persone con autismo: fornisce infatti una forte stimolazione sensoriale e sociale. E nella persona molto anziana, o addirittura affetta da demenza, l’ascolto della musica stimola i ricordi episodici e autobiografici.

Non bisogna poi sottovalutare che la musica gioca un ruolo importante nello sviluppo del senso di affiliazione e appartenenza. All’asilo per esempio è fondamentale per favorire la socializzazione tra bambini. E ancora, in generale, possiamo dire che l’attività musicale promuove la neuroplasticità e aumenta la connettività delle fibre bianche che collegano regioni diverse del cervello. Si dice che la musica ci rende più “intelligenti”, proprio perché l’intelligenza si basa sulla velocità di trasmissione delle informazioni. Insomma, tutte buone ragioni per avvicinare i più piccoli allo studio di uno strumento musicale».

mente e cervello
Ancora una curiosità riguardo a mente e cervello: su cosa state lavorando adesso?

«C’è ancora tanto da scoprire sul nostro cervello e noi abbiamo tante linee di ricerca attive. Molto affascinante e promettente è il progetto che ci vede impegnati, in collaborazione con il Politecnico di Milano, nello sviluppo di sistemi di riconoscimento automatico che, grazie ad algoritmi di machine learning, consentono la lettura dei contenuti mentali. L’obiettivo è realizzare sistemi di brain computer interface per pazienti con lesioni spinali e la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). Una bella sfida!»

Fonte: Innovation Trend Report, Neuroscience Impact, Brain and Business, Intesa Sanpaolo Innovation Center

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