Arianna Traviglia: l’archeologa con la passione della robotica
Altro che Carbonio 14. Chi avrebbe mai detto che un giorno la ricerca di ogni traccia storica e anche preistorica possibile potesse passare dal lavoro dei satelliti e le loro immagini scattate a migliaia di chilometri dalla terra? Certo, la tecnologia offre oggi soluzioni in grado di risolvere ogni problema. Ma il modo in cui il mondo dell’intelligenza artificiale sta mettendosi a disposizione di branche inedite, come l’archeologia, è del tutto affascinante e ricco di prospettive estremamente interessanti. E’ la nuova frontiera della ‘cultura digitale’ che necessita di competenze classiche, ma anche informatiche ed ingegneristiche. Arianna Traviglia, Tecnovisionaria 2021 per l’Intelligenza artificiale applicata alla cultura, è Direttrice del Center for Cultural Heritage Technology dell’Istituto Italiano di Tecnologia ed è una delle massime esperte in Italia, e forse nel mondo, di questo innovativo campo della ricerca. Come recita la motivazione del Premio conferitole da Women and Tech, la dott.ssa Traviglia si definisce una ‘umanista digitale’. E leggendo qualche intervista qua e là, spiega che dobbiamo toglierci dalla testa l’immagine di Indiana Jones.
Perché?
Perche’ non esiste archeologo al mondo che lo consideri un ‘collega’…
Perche’ le avventure di Indiana Jones non potrebbero essere piu’ lontane dalla realta’ della professione dell’archeologo, fatta di scoperte ‘lente’ raggiunte passo dopo passo, spesso tramite approcci multidisciplinari.
La passione per l’archeologia nasce sui banchi di scuola?
In realtà, come succede forse a molti bambini, ero affascinata dall’archeologia e dalla robotica. In particolare, intorno ai 12 anni, sono andata in gita ad Aquielia e osservando la Basilica mi sono detta: ‘Farò l’archeologa!’ Tra l’altro, vent’anni dopo, quando ormai ero diventata un’archeologa, ho cominciato a lavorare proprio ad Aquileia, quindi sono ripassata davanti a quella Basilica dicendo: ecco il mio sogno che si è realizzato. In realtà non ci sono arrivata subito perché sapevo che gli studi umanistici in Italia non danno tantissimi sbocchi per cui ho avuto anche i miei ripensamenti. Ma alla fine quello che piace è quello che si riesce a fare davvero, per cui ho completato la laurea in Storia, poi ho fatto la scuola di specializzazione triennale in Archeologia, che è la scuola che si fa in Italia con l’obiettivo di lavorare per le Soprintendenze Archeologiche.
Quale sono stati i primi scavi con i quali si è cimentata?
Il primo scavo – non ero molto distante da dove mi trovo ora – ero in provincia di Treviso, a San Zenone degli Ezzelini, la primissima esperienza. L’anno dopo invece sono andata in Francia, perché volevo fare una prima esperienza all’estero e per la precisione sono andata nel Nord della Francia, vicino alla zona dello Champagne e li ho cominciato a lavorare su contenti un po’ diversi da quelli italiani, su necropoli merovingie dove ho scavato i miei primi scheletri. Poi ho iniziato varie altre attività, tra cui ho iniziato a lavorare come archeologa professionista: durante l’estate, nei periodi in cui non avevo gli esami esercitavo questa professione, soprattutto nel nord est Italia. Sono stata in Friuli, dove tutti gli anni avevo scavi, fino a quando non mi sono trasferita a Roma dove sono stata due anni. Tante esperienze, ho avuto una vita con dei momenti molto intensi! C’è stato il periodo in cu facevo la scuola di specializzazione a Trieste, un ulteriore master di specializzazione a Torino e vivevo e lavoravo a Roma. Passavo le notti nei treni per muovermi tra queste tre città!
I suoi studi all’estero: a Sidney e a Seattle. Perché queste due città?
Quando stavo facendo la scuola di specializzazione in Archeologia, ho avuto l’opportunità di seguire delle lezioni di un professore sloveno a Trieste, sede della scuola, ed era uno dei pochissimi esperti di sistemi informativi geografici applicati all’archeologia. In quel momento ho iniziato a scoprire il mondo del digitale applicato a questa disciplina, sono andata sei mesi in Slovenia, ho fatto una tesi (per la specializzazione) sulla materia dei Sistemi informativi geografici applicati all’archeologia. Mentre la stavo terminando sono riuscita ad entrare in un programma interdisciplinare della facoltà di ingegneria a Trieste in Geomatica e Sistemi informativi Territoriali. Si trattava di un dottorato che partiva quell’anno e che accoglieva anche studenti in discipline umanistiche perché aveva una sezione dedicata alla topografia antica. Da lì ho iniziato ad occuparmi di Geomatica e SIT, tutti i sistemi informativi applicati allo studio del pianeta Terra. Io mi ritagliavo le mie parti relative alla Topografia antica: lì ho iniziato ad usare i sistemi satellitari. Nel corso del Dottorato ho avuto l’opportunità di andare sei mesi a Seattle, dove c’era una scuola archeologica che aveva già delle persone che lavoravano nell’ambito dei SIG e del Tele-rilevamento archeologico. Una volta terminato il dottorato, ho fatto immediatamente domanda in uno dei centri principali che si occupavano di questo campo, in Australia, dove avevano un grosso progetto sulla Cambogia per l’uso delle immagini satellitari. Ho avuto la fortuna di vincere subito un finanziamento da parte del governo australiano, ovvero una prima borsa di ricerca dedicata: si chiamano Endeavor e sono delle borse del Governo australiano per andare in Australia a fare ricerca. Sono riuscita ad andare al primo tentativo all’Università di Sidney, e da li c’è stata una sequenza di altre posizioni in Australia dove alla fine sono rimasta per quasi 9 anni. La seconda Borsa di studio è stata molto importante: si chiamano International Linkages da lì poi sono stata definitivamente presa dall’Università. Sono diventata anche ‘Permanent resident’, ero ad un passo dalla cittadinanza che non ho acquisito per un soffio. Problemi tecnici: uscivo troppo spesso dal paese!
Anche lei un ‘cervello di ritorno’, grazie ad un programma della Commissione Europea. E’ stata felice di questa scelta?
Si, sono riuscita ad avere il Reintegration Grant e ho deciso di rientrare in Italia. Non era previsto che mi fermassi a lungo ma alla fine ci sono rimasta con una Borsa molto prestigiosa, la possibilità di fare ricerca e approfondire un’area di studio che mi interessa che è quella dell’Intelligenza Artificiale. Poi si sono aperte ulteriori opportunità con l’Istituto Italiano di Tecnologia e quindi ho deciso di fermarmi in Italia.
Quale è il periodo storico (o preistorico) che maggiormente la appassiona?
Io lavoro principalmente sul periodo ‘fine dell’Impero’. Per la verità mi interessano molto i periodi di transizione, quindi la fine dell’Impero e l’inizio dell’Alto Medioevo. In realtà ad Aquileia lavoro molto sul periodo classico, che in realtà è quello più evidente. La mia formazione, e anche la tesi di laurea, è focalizzata sulla fase di transizione, cioè il momento in cui si sfalda l’organizzazione romana e cominciano nuove forme di dominio sul territorio e di aggregazione della popolazione. Mi appassionano queste fasi particolarmente complicate.
Che cosa sta mappando ora del patrimonio archeologico del nostro paese?
In questo periodo stiamo facendo una serie di test con l’intelligenza artificiale. Stiamo addestrando la macchina a riconoscere automaticamente i siti archeologici che si possono identificare tramite satellite. In questa fase di training dobbiamo usare una serie di dati che già abbiamo: sto riprendendo in mano le identificazioni che avevo fatto a schermo, visivamente, su Aquileia e le stiamo inserendo all’interno della macchina per istruirla. Contemporaneamente riceviamo anche alcune informazioni e dati da colleghi che ci supportano in questa ricerca, dall’Olanda e dalla Scozia. Stiamo cercando di ampliare il numero di tracce a disposizione e quindi stiamo facendo ulteriori test nell’area veneta, che mi interessa molto per approfondire la centuriazione romana, ovvero la suddivisione in griglie che veniva fatta per colonizzare le aree nel periodo romano e che è ancora leggibile nella struttura del nostro territorio.
Quanti tesori sono ancora nascosti nel sottosuolo italiano e che ora grazie alle nuove tecnologie siamo in grado di andare a cercare con maggiore puntualità e precisione?
Non ci sono aree nel nostro paese che non sono state popolate, in area romana e pre-romana. Potenzialmente quindi tutto il territorio italiano è una zona a ‘rischio archeologico’. Probabilmente in campagna non c’è la stessa densità abitativa o di insediamento che c’è in aree urbane, ma molto spesso fuori si trovano aree molto meglio conservate. Noi abbiamo continuato ad urbanizzare aree che erano già state urbanizzate prima in epoca romana, poi in fase post-romana. E anche i romani, a loro volta, si insediavano in aree già popolate, dove c’erano già villaggi. Da noi abbiamo avuto una continuità abitativa: le città non sono mai di nuova fondazione, tranne pochissimi esempi e sono tutte importate su città medievali o romane. Lo stesso le nostre campagne. Semplicemente ce ne accorgiamo meno perché la densità insediativa è inferiore. Ma tutta l’Italia è sempre stata popolata. Il telerilevamento lo applichiamo anche per identificare aree che sono soggette a spoliazione da parte dei cosiddetti ‘tombaroli’, cioè da chi fa scavi clandestini per alimentare il traffico illecito di beni culturali. In questo caso abbiamo lavorato molto sulla Siria e sull’Iraq, zone di guerra dove peraltro non si può fare ricerca attiva, si può continuare a fare ricerca sia per la ‘scoperta’ sia per identificare potenziali crimini, usando queste nuove tecnologie. Quando ero in Australia, ad esempio, ho lavorato ad un progetto sulla Cambogia che è il paese al mondo con la più alta densità di mine antiuomo. Qui è praticamente impossibile fare ricerca sul campo, per questa ragione. Si può fare un altro tipo di ricerca, si possono fare indagini e ricognizioni solo nei sentieri dove passano gli animali e quindi sono zone sicure. Ma nelle aree di foresta il telerilevamento è molto utilizzato proprio perché ci sono dei rischi oggettivi ad inviare dei gruppi di ricercatori in spedizioni a piedi. Quindi, in zone di questo tipo, è assolutamente fondamentale saper sfruttare le nuove tecnologie. Questo vale comunque anche per l’Italia, perché anche qui abbiamo territori che non sono mai stati indagati e sono cosi vasti, ci si impiegherebbe talmente tanto che almeno per avere un’idea globale del territorio partire dal telerilevamento è sempre la maniera più giusta per approcciare al territorio. Che comunque spesso ti permette, al contrario delle ricognizioni di superficie, di vedere ciò che si trova sotto terra, riuscendo ad identificare meglio con le immagini satellitari.
C’è spazio per giovani archeologici in Italia? Vale la pena a suo avviso tentare una carriera oggi in questo campo? È imprescindibile che siano ‘archeologici digitali’?
Si, c’è spazio. Comunque, le facoltà di archeologia sono piuttosto piene! C’è ancora molto interesse per questa materia e per fortuna i giovani sono molto attratti dalle tecnologie. Il problema che trovano in Italia è che sono poche le università che diano attivamente una formazione in questo campo e che abbiano dei corsi strutturati. Quindi gli studenti che vogliano farsi un po’ le ossa in questa materia devono andare all’estero, farsi dei corsi a pagamento o sperare di avere qualcuno che faccia loro un ‘training on the job’. Quindi hanno oggettivamente delle difficoltà a portare avanti questa specializzazione. Però c’è molto interesse, anche perchè questa disciplina fornisce delle skills, soprattutto quando si lavora con i SIG, che sono facilmente esportabili. Io ho avuto diversi studenti che non sono stati in grado di trovare un lavoro in archeologia, ma sfruttando le competenze in telerilevamento e in SIG che avevano appreso, sono riusciti ad impiegarsi nell’ambito – ad esempio – della geologia o affini.
Ci spiega cosa significa esattamente sfruttare l’intelligenza artificiale in campo archeologico? Quali sono i risultati più sorprendenti ed interessanti che sono stati conseguiti fino ad ora?
Tanto per cominciare dobbiamo dire che siamo agli inizi. Ma le applicazioni sono tantissime. Ne stiamo esplorando alcune e molte si apriranno nei prossimi anni, man mano che anche gli archeologi si renderanno conto delle possibilità infinite. Nel mio centro ce ne occupiamo a vari livelli: per lo studio delle immagini satellitari per individuare automaticamente nel sottosuolo le tracce archeologiche. Poi la usiamo nell’ambito della comprensione di testi antichi: abbiamo un progetto con l’Università di Venezia e il British Museum – e noi ci occupiamo proprio della parte di intelligenza artificiale. Prendiamo delle tavolette cuneiforme e cerchiamo di comprendere il significato di alcuni segni epigrafici specifici che non sono mai stati compresi, perché non se ne capisce la natura. Per cui tramite l’AI stiamo facendo un lavoro che comprende anche la trascrizione automatica dei cunei, per comprendere il contesto all’interno dei quali questi segni epigrafici sconosciuti sono presenti. Spostandoci in un ambito meno archeologico e più storico, usiamo l’AI per trascrivere i manoscritti, quelli d’archivio scritti a mano: stiamo insegnando i sistemi a trascrivere le varie scritture e le varie mani, in modo da avere a disposizione questi testi in modo che possano essere ulteriormente studiati e ulteriormente analizzati in maniera automatizzata, creando delle connessioni che sarebbe impossibile stabilire a mano, visto che spesso vengono trattati milioni e milioni di dati.
Quando e come ha capito che l’archeologia doveva aprirsi a nuovi strumenti, affidandosi ad un approccio multidisciplinare che immaginiamo, poteva apparire inizialmente quantomeno singolare?
Quando io ho iniziato di tecnologia applicata a questo campo non c’era quasi nulla! Se pensiamo che adesso io ho due braccia robotiche per fare la scansione tridimensionale di un oggetto archeologico per me è fantascienza, se ripenso a quando ho iniziato io! Allora avevamo matita, foglio di carta millimetrata e righello! Ora ho le braccia robotiche che girano intorno ad un oggetto e fanno la ricostruzione tridimensionale. Nel giro di vent’anni c’è stata una rivoluzione completa e siamo agli inizi, chissà cosa avverrà nei prossimi anni!
Che informazioni occorre impartire ad una macchina per consentirle di riconoscere depositi archeologici sepolti?
In parte lo anticipavo prima. Come procediamo noi: abbiamo preso dei ritagli di fotografie, blocchi di immagini satellitari in cui sono presenti delle tracce che io ho già identificato ad occhio, a schermo. Abbiamo ritagliato questi ‘oggetti’ che noi sappiamo essere potenziali siti archeologici sepolti e li passiamo al computer dicendogli: questa è una traccia archeologica, anche questa e questa anche, anche se ha una forma totalmente diversa dalla precedente. Quindi abbiamo costruito questo che è un ‘training data set’ e così riusciamo ad insegnare alla macchina quali sono tutte le variazioni che può avere nella sua forma un sito archeologico in un sottosuolo.
Sappiamo che in questo momento sta seguendo il progetto ‘Cultural Landscapes Scanner’ appena partito in collaborazione con l’Esa, l’Agenzia spaziale europea. A che cosa state lavorando esattamente, con che obbiettivo?
Non solo. Tra poco ne iniziamo uno anche con l’Agenzia Spaziale Italiana. Con l’Esa stiamo lavorando con la parte di automazione, di machine learning. Loro hanno già avuto delle esperienze di identificazione di tracce da immagini satellitari. Adesso che dispongono della Piattaforma Copernicus (piattaforma di dati satellitari) sono interessati ad utilizzarla in vari tipi di applicazione e sono interessati anche al patrimonio culturale. Le immagini di Copernicus sono centinaia di migliaia (in pratica ogni cinque giorni l’intera superficie terrestre viene ripresa dal satellite) e quindi sono interessati alle procedure e agli algoritmi che abbiamo elaborato nel nostro centro. I nostri algoritmi nel lungo periodo saranno applicabili non solo ad una zona ma a vari tipi di aree e settori, in tutto il mondo. Quindi siamo in una fase di allenamento della macchina: purtroppo a causa del Covid non abbiamo potuto essere spesso nella loro sede di Frascati e dobbiamo fare tutto a distanza.
Il vostro campo di ricerca vive una stagione sufficientemente avanzata o dobbiamo ammettere di essere ancora in una condizione pionieristica? Il che potrebbe essere una buona notizia, perché ci sono enormi opportunità.
Per quello che mi riguarda io sono fissata con la robotica! Forse da piccola ho letto troppo Asimov. In questo momento in effetti stiamo dedicando molta energia nell’ avviare un team che si occupi della robotica per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Sono fermamente convinta che se andiamo avanti con la velocità con cui abbiamo avviato la digitalizzazione del patrimonio culturale mobile e immobile fino adesso non ce la faremo in 50 anni! E per allora i formati digitali su cui facciamo la digitalizzazione ora saranno certamente obsoleti. Quindi bisogna lavorare nell’ambito della robotica per velocizzare tutta la procedura di digitalizzazione, bidimensionale e tridimensionale. Che io sappia al mondo ci sono solo due gruppi che stanno facendo questo lavoro: il nostro e un gruppo di ricerca in Germania! E’ un obiettivo a cui tengo tantissimo: d’altronde il nostro centro nasce per creare le tecnologie abilitanti per il paese e per produrre quella tecnologia che non c’è. Poi ci sono altre cose su cui mi interessa lavorare, a partire dal miglioramento della capacità di accesso ai dati satellitari per i beni culturali, un settore piuttosto difficile per chi non abbia un training specifico ad avere accesso ai dati satellitari. Mi riferisco a piattaforme che permettano agli archeologi di sfruttare al meglio il potenziale del telerilevamento.
“DONNE SCIENZA INVENZIONE CARRIERA – Progetto di Gianna Martinengo”
Dalle esperienze alle skill al role model, viaggio tra le professioniste e scienziate che stanno facendo progredire il mondo della scienza italiano e internazionale. Interviste a “mente aperta” anticipate da un viaggio nei diversi mercati dell’innovazione. Uno spazio sarà dedicato alle trentenni , giovani donne – professioniste e scienziate – che affrontano il futuro con coraggio e determinazione.