La signora dei robot: progettiamo robot che imitano la natura per salvaguardarla
“Non abbiate dubbi: fatevi guidare dalle vostre passioni. Nella consapevolezza che lungo la strada non mancheranno gli ostacoli. Ma se quello che fate lo fate con passione, sarà più facile non gettare la spugna”. È questo il messaggio di incoraggiamento che Barbara Mazzolai invia a chi è ancora tra i banchi di scuola e si interroga sul proprio futuro. “Cercate e troverete la vostra strada, sapendo che le vie sono molteplici”.
Direttrice del Laboratorio di Robotica Soft Bioispirata dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, il suo nome è intrinsecamente legato alla robotica. Di robotica è infatti considerata tra le maggiori esperte a livello mondiale. RoboHub nel 2015 l’ha menzionata tra le 25 donne più geniali del settore. Eppure i primi passi nel mondo della ricerca Barbara Mazzolai li ha mossi nel campo della biofisica.
“Sono laureata in biologia marina e ho iniziato a fare ricerca nel campo della biofisica studiando l’impatto di alcuni inquinanti sulla nostra salute e sull’ambiente. Poi, attraverso un master internazionale in Eco-Management, sono arrivata al mondo dell’ingegneria e alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, con il professor Paolo Dario, ho mosso i primi passi nel campo della bioingegneria applicata alla tutela dell’ambiente. È stato poi il dottorato in ingegneria dei micro-sistemi ad avvicinarmi definitivamente al mondo della robotica. Ho iniziato a sviluppare sensori portatili per il monitoraggio ambientale e così sono arrivata alla robotica di servizio, cioè allo sviluppo di robot sensorizzati, di sistemi autonomi per il monitoraggio dell’aria, dell’acqua, per la raccolta dei rifiuti e così via”.
Robot lontani da quelli che popolano il nostro immaginario, dalle fattezze umane. Ma pur sempre bioispirati: macchine cioè progettate imitando la natura, le proprietà di piante e animali, come per esempio la robustezza, l’idrorepellenza o la capacità di adesione delle tele di ragno, dei fiori di loto e delle zampe di geco.
“In quegli anni, parliamo della fine del primo decennio degli anni Duemila, è arrivata infatti l’ondata della biorobotica, della robotica ispirata alla natura: un ambito florido che si nutre della contaminazione con altre discipline come appunto la biologia”.
E così è nato il progetto che ha portato alla realizzazione del suo Plantoide. Si chiama così il suo robot, che è il primo robot ispirato alle radici delle piante e che lei, con il suo team, ha progettato nell’ambito del programma europeo FET (Future and Emerging Technologies), che finanzia le idee di ricerca più visionarie.
In effetti all’epoca era visionaria l’idea di realizzare un robot che imitasse le radici delle piante. E all’inizio non è stato facile: si scontrava con l’idea che comunemente abbiamo delle piante. In fondo riteniamo che le piante siano statiche e che in quanto tali non possano essere di ispirazione per i robot che invece devono muoversi, comunicare con l’esterno, percepire l’ambiente circostante. Ma in realtà anche le piante fanno tutto questo e per questo costituiscono un ottimo modello per l’ingegneria. Tanto che da quel progetto è nato un nuovo filone di ricerca finalizzato allo sviluppo di tecnologie per l’ambiente, intelligenti e sostenibili.
Di fatto il robot plantoide è nato pensando a possibili applicazioni in campo ambientale?
Sì, il plantoide è nato per fare monitoraggio del suolo, per andare alla ricerca di acqua, azoto, fosforo ma anche sostanze inquinanti, quindi con l’idea che un robot ispirato alle radici delle piante possa essere utile per il monitoraggio ambientale e in agricoltura. Di fatto si sa davvero poco della costituzione del suolo e il robot plantoide potrebbe in prospettiva aiutarci a conoscerlo meglio individuando il terreno più adatto per costruire, per coltivare e così via. Siamo partiti dunque dallo studio delle piante e in particolare delle loro radici.
Generalmente si pensa alle radici come ad un’ancora che le fissa saldamente al terreno e non a qualcosa che si muove ed esplora l’ambiente…
In effetti le radici penetrano il terreno e lo esplorano in modo capillare. Parliamo di un’esplorazione guidata dalla percezione dell’ambiente circostante perché di fatto le radici sono munite di sensori. Quindi con i robot che imitano le radici ci prefiggiamo di poter monitorare il suolo, per esempio per interesse agricolo, ma non solo.
Studiare e progettare il robot plantoide è stato molto utile anche per conoscere meglio il fenomeno biologico della crescita delle radici che, crescendo, si muovono.
Le radici, cioé, crescono per aggiunta di cellule, assorbono acqua dall’ambiente e spingono nel suolo la punta, l’apice radicale. In altre parole la crescita non parte dal tronco ma dalla punta: una strategia efficiente, veloce e che riduce l’attrito e le pressioni del suolo.
E dal robot pianta è arrivata al robot seme passando per GrowBot, un robot che imita le piante rampicanti.
Si tratta di progetti che in modo diverso studiano le strategie di movimento delle piante. Con il progetto GrowBot ci ispiriamo alla pianta rampicante per replicarne la strategia di ricerca di un supporto al fine di non soccombere al suo stesso peso.
Pensate al fagiolo, allo zucchino o all’edera: sono alcuni esempi di piante che non sviluppano tronchi sofisticati e, crescendo velocemente, rischiano di collassare sotto il proprio peso. Per evitarlo, si aggrappano al muro oppure a un’altra pianta, cercano insomma un supporto. Anche Charles Darwin ha classificato le piante rampicanti a seconda delle strategie con cui trovano un supporto.
Proprio la ricerca di questo supporto è la strategia che un robot può imitare trovandosi ad agire in un ambiente difficile, ricco di ostacoli, come una foresta o un ambiente ostile.
Nell’ambito del progetto I-Seed, invece, studiamo diverse strategie di dispersione dei semi: le piante infatti, essendo sessili, non si spostano come fanno gli animali e per lanciare la progenie spargono in giro i semi che trasportano la vita. Per farlo ricorrono a strategie diverse. Noi stiamo studiando due tipologie in particolare: la dispersione aerea, tramite il vento, usata dai samara – che sono dotati di una sorta di ali che già Leonardo da Vinci aveva studiato e provato a imitare artificialmente – e la penetrazione nel suolo, stategia usata dai semi dell’avena che si attivano con l’umidità.
Insomma, il filo conduttore della sua attività di ricerca nel campo della robotica è la sostenibilità ambientale?
In effetti, la sostenibilità ambientale è sempre stata la costante del mio lavoro che connette discipline diverse: biologia, robotica, ingegneria…
Sono convinta, del resto, che la robotica ispirata agli organismi viventi possa giocare un ruolo fondamentale nel promuovere un modello più sostenibile di uso delle risorse del nostro pianeta e nello sviluppo di tecnologie green.
A questo proposito, nel suo libro La natura geniale (Longanesi) propone il motto “la robotica: dalla natura per la natura”. Un modo per sottolineare che possiamo apprendere tanto dalla natura proprio per salvaguardare la natura?
Esatto.
Proprio imitando alcune strategie delle piante, i robot di domani potranno muoversi nell’ambiente e provvedere al suo monitoraggio. Immaginate robot realizzati con materiali che diventano fluorescenti interagendo con il mercurio, la CO2… e che questa fluorescenza possa essere letta da un sistema di telerilevamento a bordo di droni. Ecco, noi stiamo pensando a una piattaforma per un sistema di monitoraggio a basso costo che potrà essere particolarmente utile per i Paesi in via di sviluppo oppure in aree remote dove sarebbe difficile usare tecniche tradizionali di monitoraggio. Sono convinta che questi robot potranno essere strumenti preziosi nelle mani di chi deve prendere decisioni, in modo che siano decisioni supportate dalla conoscenza.
Questo significa che anche dare acqua o sostanze chimiche in campo potrà essere deciso grazie alla tecnologia. Insomma, saranno robot di servizio, preziosi supporti decisionali che ci consentiranno di intervenire con maggiore consapevolezza sull’ambiente per impattare meno.
La sfida però è riuscire a realizzare tecnologie sostenibili, a basso impatto ambientale, robot cioè biodegrabdabili, che alla fine del loro ciclo di vita non creeranno rifiuti da smaltire.
Barbara Mazzolai, proprio 100 anni fa, nel gennaio 1921, è andato per la prima volta in scena, a Praga, Rossum Universal Robots (RUR), lo spettacolo di Karel Čapek che ha segnato il debutto dei robot. O meglio della parola “robota”, coniata per indicare le macchine che ci avrebbero liberati dalla fatica dei lavori pesanti. Oggi, un secolo dopo, effettivamente i robot sono fra noi, nelle catene di montaggio per esempio, ma sembra ancora lontana l’era dei robot umanoidi che popolano invece l’immaginario cinematografico.
L’era dei robot umanoidi, così come li vediamo in azione nei film di fantascienza, è effettivamente ancora lontana, ma sono tanti i progetti sui robot umanoidi, molti dei quali condotti per scopi scientifici, per esempio per studiare il comportamento umano. Perché il robot umanoide rappresenta anche una sorta di piattaforma per progredire nelle nostre conoscenze.
I robot, infatti, sono macchine al nostro servizio da tanti punti di vista: possono essere appunto piattaforme utili per studiare i comportamenti degli esseri viventi, possono fare il lavoro pesante al posto nostro, possono aiutarci in agricoltura o dopo un disastro ambientale, in ambiente industriale, e non solo nelle catene di montaggio dove sono già insostituibili, ma sempre più potranno essere impiegati per identificare fughe di gas o altri potenziali pericoli… Insomma, i robot diventano la nostra fanteria, ma i passi avanti nel campo della robotica si fanno e si faranno anche grazie alla ricerca di base.
Si tratta insomma di una sfida scientifica e non solo industriale. Una sfida che può essere vinta solo se finanziata. La ricerca di base, in fondo, è un investimento per il futuro.
L’Italia dovrebbe allocare più risorse alla ricerca, di base e applicata. La ricerca di base è quella a più alto rischio ma, come nel caso del progetto Plantoide, può generare nuovi filoni di ricerca e in prospettiva portare allo sviluppo di nuove soluzioni che hanno un impatto concreto sulla società.
Per concludere, cosa dire a chi teme che i robot ci ruberanno il lavoro?
Io invito a considerare anche l’altro lato della medaglia: con i robot nascono anche nuove figure professionali e non solo nel campo dell’ingegneria, perché quando si parla di interazione uomo-macchina entrano in gioco le scienze sociale, l’etica, l’aspetto assicurativo.
Il punto è che non dobbiamo subire i cambiamenti ma coglierne le opportunità.
Pensate per esempio a quanto sia cambiata la nostra società negli ultimi venti anni con la diffusione di Internet e della telefonia mobile e a quante nuove professioni siano nate. Pensate alle App, per esempio. Chi immaginava che tanti giovani avrebbero fondato aziende di successo legate proprio allo sviluppo di applicazioni.
La tecnologia bisogna conoscerla e non subirla.
“DONNE SCIENZA INVENZIONE CARRIERA – Progetto di Gianna Martinengo”
Dalle esperienze alle skill al role model, viaggio tra le professioniste e scienziate che stanno facendo progredire il mondo della scienza italiano e internazionale. Interviste a “mente aperta” anticipate da un viaggio nei diversi mercati dell’innovazione. Uno spazio sarà dedicato alle trentenni , giovani donne – professioniste e scienziate – che affrontano il futuro con coraggio e determinazione.