Dal fuoco come prima fonte di energia alla necessaria transizione energetica: la parola alla storica dell’ambiente Grazia Pagnotta

È il 1962 quando esce Silent Spring di Rachel Carson. Quel libro, che arriva l’anno successivo in Italia con il titolo Primavera silenziosa, getta le basi del moderno movimento ecologista. In quelle pagine la biologa statunitense denuncia l’impatto degli insetticidi sulla vita animale, evidenzia l’assurdità di poter pensare di riversare una raffica di veleni sulla superficie della Terra senza danneggiarla irrimediabilmente e reclama un radicale cambiamento: perché noi non siamo al di sopra della natura, ma parte di essa.
Diciotto anni dopo è la volta di La morte della natura di Carolyn Merchant. Libro che segna la nascita dell’ecofemminismo e sottolinea il costo, alto, pagato sia dalle donne sia dalla natura a causa dello sviluppo della civiltà industriale, caratterizzata dal dominio maschile.
Negli stessi anni, in Italia è Laura Conti a contribuire, “con il suo impegno e la sua bella scrittura, alla diffusione della consapevolezza dei problemi ambientali”. Con un romanzo – Una lepre con la faccia di bambina – e un saggio – Visto da Seveso – non solo ricostruisce la cronaca dell’emergenza innescata dalla nube tossica che avvolse il comune lombardo nell’estate del 1976, ma nel raccontare quel disastro ambientale ed ecologico reclama l’urgenza di un impegno politico.
Se queste sono alcune letture che hanno nutrito l’interesse e l’attenzione di Grazia Pagnotta per la salvaguarda dell’ambiente, è l’incontro con Alberto Caracciolo, con il suo libro (L’ambiente come storia) e con lui, nelle aule universitarie, a indirizzarne anche l’impegno accademico, da storica, in questa direzione. Pagnotta è infatti docente di Storia dell’ambiente all’Università Roma Tre.
“Caracciolo era professore alla Sapienza quando io ero studentessa universitaria. È stato lui a introdurmi alla storia dell’ambiente ed è stato il relatore della mia tesi di laurea”. Era il 1993 e la tesi di Pagnotta era incentrata sul valore del bosco e sulla storia del nostro legame con le foreste. Un legame che attraversa tutte le epoche. Perché “in tutte le civiltà umane l’albero ha rappresentato una delle principali fonti di ricchezza, sulla quale si è imperniata la vita materiale e l’economia delle società. Il legno è servito per costruire case e foggiare gli strumenti di lavoro, per i mezzi di trasporto, per fabbricare le armi, e fino alla rivoluzione industriale è stato la principale fonte di energia”.

Da allora Pagnotta si occupa (oltre che di storia economica e storia urbana) della storia della nostra interazione con la natura e le sue risorse. E proprio alla storia dell’energia, dall’antichità fino a oggi, è dedicato il suo nuovo libro Prometeo a Fukushima (Einaudi 2020): un excursus che ci accompagna dalla scoperta del fuoco alla necessaria transizione energetica per consumare meno energia e di conseguenza consumare meno il pianeta.

“In realtà – chiarisce la professoressa – la prima forma di energia che abbiamo usato è quella dei nostri muscoli. Prima ancora di ricorrere alla forza degli animali, abbiamo infatti fatto affidamento alla forza umana per cacciare, pescare e raccogliere frutti. E solo dopo, circa 600 mila anni a.C., abbiamo imparato a gestire il fuoco e questo ha rappresentato un grande salto tecnologico”.
L’utilizzo del fuoco come fonte di energia ha determinato anche il dominio della nostra specie sulle altre?
«Certamente. La capacità di manipolare il fuoco è esclusivamente umana, è un privilegio della nostra specie. E così, una volta compreso come crearlo, abbiamo potuto difenderci dagli animali feroci molto più facilmente, abbiamo potuto riscaldarci, fare luce e cuocere i cibi: innescando un miglioramento considerevole della nostra vita e un cambiamento della nostra posizione nel mondo».

A proposito di salto tecnologico, nel Cinquecento è stato poi il legno, o meglio la sua scarsità, a innescare il salto verso le fonti fossili.
«Il Cinquecento in effetti è stato il secolo della crisi del legno, una crisi poco nota che interessa chi, come me, si occupa di storia economica. Alcuni ritengono che quella crisi sia legata a una carenza in tutta l’Europa, altri invece sostengono che sia stato un problema circoscritto a Londra, legato ai costi molto alti che rendevano il legno inaccessibile.
Nonostante servano ulteriori ricerche per stabilirne l’effettiva entità, possiamo però dire che quella crisi ha effettivamente segnato un passaggio importante: il passaggio da una fonte di energia organica, quindi rigenerabile, alle energie inorganiche, non rigenerabili e inquinanti».
Con fonte di energia inquinante intende il carbone?

«Esatto. La penuria di legname ha aperto la strada all’utilizzo del carbone e ha segnato l’inizio della civiltà del carbone. In questo senso possiamo guardare alla Rivoluzione industriale come alla risposta a uno stress ecologico intorno a una risorsa energetica, il legno, con un’altra risorsa energetica, il carbone. E l’entrata in scena del carbone ha significato l’inizio delle fonti di energia fossili. Il carbone, però, come sappiamo, è stato a sua volta foriero di ulteriori stress ecologici. Il più grave è quello causato dal fumo industriale che scaricava i prodotti della combustione delle macchine a vapore».
Se l’Ottocento è stato il secolo del carbone, il Novecento, che è stato il più energivoro, è stato il secolo in cui il mix energetico ha visto l’ingresso prepotente del petrolio e del nucleare…
«Nel Novecento il consumo di petrolio è impennato con la motorizzazione dei trasporti, ma l’uso del petrolio e poi del nucleare non ha comportato un abbandono del carbone che ha continuato a essere usato per la produzione di elettricità con le centrali termoelettriche.

Tutte le epoche, in fondo, sono caratterizzate da un mix energetico. Del resto, dal punto di vista dello storico, la ricostruzione della storia dell’energia ruota attorno ad alcuni eventi particolarmente significativi più che alla singola fonte di energia: come la Rivoluzione industriale, la scoperta dell’elettricità, l’esplosione della bomba atomica che ha significato la scoperta della potentissima energia nucleare, la crisi petrolifera del 1973 che ha messo l’umanità di fronte alla finitezza delle fonti fossili, l’incidente e disastro ambientale di Chernobyl, nel 1986, che ha fatto naufragare l’idea che le preoccupazioni degli ambientalisti fossero secondarie».

Tra i disastri ambientali del Novecento, c’è anche Fukushima che dà il titolo al libro.
«L’incidente di Fukushima è un caso paradigmatico. Nessun altro incidente dell’energia ha il suo significato, sebbene in termini di vite, salute pubblica e impatto ambientale Chernobyl sia stato ben più grave. Fukushima ci ricorda quanto piccola sia la nostra capacità tecnologica di fronte a eventi che non possiamo dominare, come il maremoto del 2011. Nella centrale di Fukushima erano previste misure per far fronte a un eventuale maremoto, ma l’onda che è arrivata è stata ben più alta di quelle che erano state valutate come possibili nel mettere in sicurezza l’impianto. Fukushima per questo rappresenta la coscienza dei nostri limiti.
Ma oltre ai disastri ambientali di Chernobyl e Fukushima, che hanno segnato la storia del Novecento, ci sono anche altri tipi di disastri ambientali da considerare e scongiurare: i grandi sversamenti petroliferi in mare, per esempio, ma anche quelli causati agli ecosistemi dalle grandi dighe. Perché le grandi dighe sono infrastrutture imponenti che compromettono definitivamente la biodiversità di un fiume, modificano i sedimenti, il flusso dell’acqua, compromettono la vita dei pesci e degli altri esseri acquatici, con risvolti anche sulla fauna che vive ai bordi del fiume. Hanno un impatto evidente su tutti i grandi fiumi: il Nilo ne è un caso emblematico, ma riguarda tutti i grandi corsi d’acqua».

A proposito di impatto ambientale, non dobbiamo trascurare l’impatto dei trasporti proprio per le conseguenze derivanti dall’uso del petrolio.
«Sì, ma non illudiamoci che l’auto elettrica ci salverà. Le automobili sono ingombranti oltre che inquinanti. Inquinano le città, cioè, anche con il loro ingombro, da un punto di vista estetico: si pensi a come le auto – che circolino nelle strade, o siano in sosta o in doppia fila – e tutti gli apparati che servono a gestire il traffico invadono e deturpano le nostre città. Insomma, il trasporto è una questione che va oltre il problema dell’approvvigionamento energetico, perché non implica solo l’inquinamento causato dalle emissioni ma anche il consumo di suolo».

Transizione energetica, quindi, vuol dire anche pensare a città a misura di pedoni?
«Ci sono già esempi che vanno in questa direzione. A Bordeaux, una porzione enorme di città è completamente pedonalizzata, senza neppure marciapiedi, perché quella parte della città è pensata a misura di pedone, di chi la città la vive a piedi.
Anche in Italia dovrebbe essere maggiormente chiaro che ripensare il trasporto non significa solo valutare quale energia scegliere per alimentare le auto del futuro, ma fare in modo di diminuire il numero delle macchine in circolazione, perché di fatto anche l’auto elettrica, seppure inquini meno, non è esente da alcune criticità, come per esempio la gestione delle batterie esauste. Sono convinta che il trasporto delle persone vada ripensato con il potenziamento dei trasporti pubblici e con il superamento della centralità dell’auto di proprietà, andando verso il car sharing o il car pooling, per una mobilità più sostenibile».

Professoressa, lei nel libro ricorda che il premio Nobel Paul Crutzen ha proposto, nel 2000, di denominare l’epoca che va dalla rivoluzione industriale in poi Antropocene, per sottolineare la nostra responsabilità nell’aver, con le nostre attività, rimodellato il pianeta e innescato una preoccupante crisi climatica. A questo punto, la transizione energetica non solo è necessaria, ma urgente?
«Una transizione energetica è assolutamente necessaria e non più rinviabile: se noi pensiamo al nostro mondo, a quanto è sovrappopolato e soffocato dai rifiuti, e se pensiamo ai nostri mari depauperati della fauna e all’intenzione di raggiungere anche i fondali più profondi per cercare minerali e terre rare… Se mettiamo insieme tutti questi pezzi come le tessere di un puzzle, è evidente che la questione è esplosiva e se non ci sarà una immediata inversione di rotta l’umanità avrà seri problemi.
Per questo, per Crutzen uno dei compiti dell’umanità è sviluppare una strategia di ecologia umana contro gli stress che essa stessa ha indotto. Il cambiamento climatico è causato da alcune attività umane – allevamento, agricoltura intensiva, produzioni industriali… – che contribuiscono all’immissione di gas serra in atmosfera. E le principali fonti di energia che generano gas serra sono le fossili. Perciò, se da un lato è evidente che noi abbiamo alterato l’atmosfera e inciso sul clima da quando abbiamo iniziato a usare in grande quantità il carbone, oltre che con la deforestazione, dall’altro non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità. Dobbiamo quindi invertire la rotta».

Vento, sole, mare: il futuro allora non può che essere alimentato dalle fonti di energia rinnovabili e in futuro dovremo dire addio alla sbornia energetica di carbone, petrolio e gas, all’essere, quindi, così energivori?
«Non c’è altra possibilità se non le fonti di energia rinnovabili. Non ci libereremo velocemente dal petrolio e dal gas naturale, ma negli ultimi anni è già cresciuta l’energia elettrica prodotta con solare e fotovoltaico. Tutte le grandi aziende dei combustibili fossili devono investire nel solare e nell’eolico. Non c’è altra strada da percorrere. Oltre che ridurre il consumo di energia e la produzione di rifiuti».