Isabella Castiglioni: tra università e impresa, la nuova frontiera del machine learning

Isabella Castiglioni è una scienziata imprenditrice. Una professoressa universitaria che, con determinazione e caparbietà, è tornata sui banchi di scuola, ma dall’altro lato della cattedra, per mettersi in gioco e riuscire a dare forma e concretezza alla sua ambizione: trasformare la sua attività di ricerca, i risultati dei suoi studi, in nuovi “ferri del mestiere” a disposizione della classe medica, in strumenti innovativi per una medicina personalizzata e di frontiera. 

Sogno che oggi ha un nome: Deep Trace Technologies. Così si chiama la sua start up nata come spin off dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia.

L’ambizione, appunto, è l’elemento comune tra i suoi due mondi: università e impresa. “Sono due progetti estremamente ambiziosi, per i quali cerco di raggiungere il massimo, sempre”. Ricerca e innovazione sono il trait d’union.

Ma partiamo dalla sua attività accademica. Isabella Castiglioni si occupa di fisica applicata, in particolare di machine learning in ambito medico. “Insegno fisica applicata alla medicina, applicazioni di machine learning, che è un’area dell’Intelligenza artificiale (AI), e Medical Imaging & Big data nei corsi di laurea magistrale in Fisica e Data science dell’Università di Milano-Bicocca. Ho la fortuna di guidare i giovani verso queste nuove discipline e contribuire alla loro formazione, all’acquisizione di competenze sempre più richieste, oggi, dal mercato”

E lei, laureata in fisica, quando ha deciso di orientare la sua attività di ricerca in ambito medico?

Da studentessa universitaria ero attratta dalla fisica nucleare, di cui mi sono poi occupata per la tesi di laurea. E visto che desideravo più di ogni cosa che le mie attività di ricerca avessero un forte impatto sociale, è stato praticamente inevitabile orientarsi verso la medicina nucleare che è fra le applicazioni più importanti della fisica nucleare. Di fatto poi tutto è iniziato all’Ospedale San Raffaele di Milano: subito dopo laurea ho vinto infatti una borsa di studio e lì ho cominciato la mia attività di ricerca.

Ma usciamo dalle aule universitarie. Quanto è importante secondo lei il trasferimento tecnologico, la valorizzazione anche economica dei risultati della ricerca accademica?

Per me è fondamentale. In fondo da questa convinzione deriva la scelta di dedicarmi alla ricerca in fisica applicata, non teorica o sperimentale. Ho sempre avuto ben chiara l’idea di puntare al trasferimento verso la società dei risultati della ricerca, per portarla fuori dal laboratorio, fuori dal cassetto in cui a volte rischia di rimanere chiusa, e farla arrivare attraverso il mercato alla società. Ma di fatto non è una strada facile da intraprendere, servono competenze altre da quelle puramente scientifiche, competenze economico-finanziarie, gestionali e manageriali, e così la strada del trasferimento tecnologico io l’ho potuta intraprendere solo dopo un percorso di formazione che ho seguito mettendomi in gioco, a 40 anni. Una delle esperienze più forti degli ultimi anni, professionalmente parlando, che ha cambiato le mie attitudini alla ricerca e mi ha fornito strumenti nuovi per valorizzare il mio lavoro e realizzare ciò che desideravo.

Si riferisce al Master in Business Administration?

Si, ho conseguito l’MBA alla Bocconi. Sono stati tre anni impegnativi – di giorno professoressa e scienziata (oltre a mamma di due bambine), di sera studentessa – che mi hanno poi consentito di poter realizzare il mio sogno: far arrivare la mia ricerca al mercato.

Scienza&Impresa dunque è un binomio possibile. In Italia però forse da rafforzare? Nel nostro Paese, cioè, non è ancora consolidata l’idea della scienziata imprenditrice…

Ha perfettamente ragione e questo è un tema molto importante su cui riflettere.

L’Italia, nonostante, almeno in teoria, recentemente abbia messo a punto alcuni strumenti per adeguarsi alle sfide del presente, è comunque indietro rispetto ad altre nazioni che formano ricercatori e ricercatrici in un’ottica diversa. 

Un’ottica anche imprenditoriale intende? Affinché non siano solo pronti ad affrontare l’impresa di fare scienza ma anche capaci di fare impresa con la scienza?

Esattamente. L’Italia è indietro su questo fronte e lo è perché nel valutare la qualità della ricerca di una ricercatrice qui non vengono conteggiate una serie di attività svolte, perché necessarie, da chi voglia trasferire al mercato i risultati della propria ricerca accademica e trasformare i risultati dei suoi studi in impresa. Spesso la ricerca applicata arriva a uno stadio antecedente alla fase di sviluppo di un prototipo, quindi si ferma ben prima di aver sviluppato un prodotto che possa essere vendibile.

Inoltre, chi fa ricerca vive e conosce bene il proprio ambiente scientifico, che però è molto distante da quello economico e/o amministrativo. Ma per fare trasferimento tecnologico servono anche competenze in questi ambiti. In parte qualcosa sta cambiando: negli ultimi anni nelle università sono stati introdotti corsi di trasferimento tecnologico e di impresa, di avvicinamento al brevetto, percorsi di stimolo e accompagnamento all’innovazione, affinchè i ragazzi e le ragazze che si occupano di ricerca tentino anche di trasformare le loro idee in un’impresa e creare innovazione.

D’altro canto, per arrivare da un risultato della ricerca a un prodotto o servizio disponibile sul mercato c’è un grosso percorso da intraprendere e non potrebbe essere svolto unicamente dal ricercatore, né per tempo né per competenze. A meno che non le sviluppi autonomamente attraverso percorsi di specializzazione ad hoc. Esigenza che io, a un certo punto, ho sentito molto forte perché ero convinta di poter offrire al mercato della salute e ai pazienti dei servizi innovativi basati sui risultati della mia ricerca. E così ho affrontato la sfida dell’MBA che, per chi fa ricerca – che ha soddisfazioni molto grandi ma stipendi bassi – può essere proibitivo economicamente: all’epoca, il costo annuale della retta era di 35 mila euro.

Io ce l’ho fatta vincendo una delle borse di studio bandite dalla Bocconi che mi ha assicurato il supporto economico. Come dicevo, è stata un’esperienza durissima ma fortificante: mi sono rimessa in gioco e sono tornata in aula, ma dall’altro lato della cattedra.

E così è nata Deep Trace Technologies, la sua start up innovativa.

In effetti Deep Trace Technologies è nata durante l’MBA, perché fin dalle prime lezioni e dai primi esami ho acquisito strumenti nuovi e subito ho cercato di applicarli nel mondo del lavoro, di trasferirli, la mattina successiva alle lezioni serali in aula, nelle mie attività di ricerca: dal modello organizzativo, da applicare al mio laboratorio, alle soft skill.

 

Cioè?

Ho cambiato modo di approcciare il lavoro e di relazionarmi con i miei collaboratori. 

Prima ero una persona molto dura ed esigente, sempre alla ricerca dell’eccellenza e del risultato, da parte mia e del mio team, non ammettendo l’errore e, per questo, accettando tempi lunghi di consegna dei risultati. Grazie al percorso dell’MBA ho imparato a cambiare prospettiva, a prendere decisioni più rapidamente mettendo in campo strategie per ridurre al massimo gli errori e compensarne gli effetti. Ho iniziato a rivolgermi ai miei collaboratori in modo completamente diverso e si è vista la differenza.

Però, diciamolo, lei cercava la cosiddetta killer application?

Assolutamente sì: io cercavo la killer application. Da un lato volevo riuscire a fermare i giovani talenti del mio laboratorio, non volevo vederli andar via, all’estero, e dall’altro puntavo a portare la migliore delle applicazioni possibili della mia ricerca nel mercato. Il mercato chiede numeri per la sostenibilità. 

E la killer application poi è arrivata.

Sì. È arrivata quando il mio migliore e talentuoso studente, Cristian Salvatore, che attualmente è ricercatore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, cofondatore e amministratore delegato dello spin off – una persona di poche parole e molti risultati (che ha un’intelligenza inversamente proporzionale alle parole che dice) – ha lavorato alla tesi di laurea nel settore dell’AI. Era il 2016. Ci eravamo posti questa sfida: riuscire a leggere in modo automatico le immagini dei cervelli dei pazienti, parliamo di immagini molto complesse per i medici, cercando di andare oltre l’occhio del radiologo, per individuare segnali precoci delle malattie neurodegenerative. 

Abbiamo quindi sviluppato un software, un sistema capace di apprendere da grandi moli di dati. E abbiamo ottenuto un risultato molto importante che abbiamo illustrato sulla rivista Frontiers in neuroscience.

Quale? 

Abbiamo dimostrato che un sistema di AI può prevedere, anni prima rispetto a una diagnosi clinica fatta da un neurologo specializzato, la malattia di Alzheimer.

Era la mia killer application. Sia per l’impatto sociale dell’Alzheimer, sia per le possibili applicazioni che potevamo sviluppare applicando la nostra tecnologia ad altre malattie.

E così abbiamo elaborato l’idea di impresa con l’intento di perseguire l’eccellenza scientifica e la scalabilità come elemento fondante e ci siamo continuamente messi alla prova, partecipando a premi e competizioni. Abbiamo insomma iniziato un percorso virtuoso.

E pieno di soddisfazioni, aggiungerei.

È vero. Cristian è stato inserito nella classifica di Forbes dei giovani più importanti per il futuro: nel 2017 ha ricevuto il premio Forbes 30 Under 30 nel settore scienze della vita con la nostra idea di impresa. E tra i vari riconoscimenti è arrivato il premio Peres-Ambrosetti e il FulbrightBEST: premio molto importante che offre la possibilità di incubare la propria startup in California. É stata un’esperienza unica che ci ha catapultati in un mondo di innovazione pura. Abbiamo dunque sviluppato il modello di business guardando non solo alla sanità italiana e abbiamo fondato la startup. Abbiamo coinvolto altri due giovanissimi ricercatori appassionati di intelligenza artificiale – Matteo Interlenghi e Annalisa Polidori – che avevano guardato all’estero per la mancanza di opportunità in Italia.

In pratica, avete sviluppato un software per prevedere, con largo anticipo e con un buon margine di probabilità, l’insorgere o l’evolversi dell’Alzheimer. Come funziona?

È un sistema complesso basato sull’utilizzo di algoritmi di machine learning che hanno la capacità di apprendere, dalle immagini radiologiche dei pazienti, caratteristiche strutturali e funzionali che differenziano ognuno di noi nello sviluppare (o progredire) una data malattia o nel rispondere ad una data terapia. Siamo partiti dalla malattia neurodegenerativa e poi abbiamo generalizzato la metodologia sviluppando una piattaforma di intelligenza artificiale che è oggi in grado di produrre un software certificabile come dispositivo medico in poche settimane, per predire la diagnosi precoce e differenziale e la prognosi di numerose malattie: tumori, malattie cardiovascolari, traumi cranici, malattie, virali…

E in meno di 30 mesi siamo riusciti a raccogliere un fondo di circa 2M da Progress Tech Transfer, che è stato fondamentale per l’aumento di capitale con cui adesso acceleriamo l’impresa verso lo sviluppo del nostro portafoglio di prodotti e la loro esportazione in Europa. Oltre a sostenere i costi di certificazione trattandosi di dispositivi medici.

Di fatto sempre più il machine learning e l’intelligenza artificiale saranno protagonisti della medicina del futuro. Una medicina che già sta muovendo i primi passi: parliamo di medicina predittiva e personalizzata.

Esattamente, sebbene i paradigmi convenzionali siano ancora per la cosiddetta medicina generalizzata, la direzione verso cui stiamo andando è questa: una medicina personalizzata e predittiva. 

È importante però ribadire che i nostri modelli predittivi non si sostituiscono al medico ma lo affiancano. E soprattutto consentono di predire la prognosi, in altre parole di guardare nel futuro del paziente, di capire cosa succederà al paziente sulla base dei dati.

Perché il sistema di AI viene addestrato su una grande mole di dati di pazienti, di cui il sistema conosce non solo diagnosi, ma anche l’evoluzione della malattia nel tempo o la risposta ad una terapia. Pertanto, una volta che ha macinato tantissimi dati, imparando da essi, e ha raggiunto una buona performance, quindi diventa robusto e accurato, può essere usato per predire cosa succederà a un paziente, con dati simili, entro un arco temporale esteso tanto quanto quello dei dati da cui il sistema ha appreso. 

In pratica usate dati storici relativi a un gran numero di pazienti per addestrare il sistema che poi usa quei dati per predire, sulla base dell’immagine radiologica del soggetto in visita, cosa succederà fra due, tre, cinque anni e di conseguenza orientare l’approccio terapeutico?

Sì. Sviluppiamo dei modelli predittivi della prognosi a servizio della salute. Portiamo avanti la nostra attività di ricerca, pubblichiamo i risultati sulle riviste scientifiche e se riteniamo che il prodotto possa essere competitivo e scalabile lo portiamo a marchio CE. Nel mese di maggio, per esempio, prende il marchio CE il nostro tool per l’Alzheimer e sarà un tool clinico su cloud in uso in alcuni ospedali italiani, e speriamo presto anche fuori dall’Italia.

Uscendo dagli ospedali, possiamo addentrarci anche per mostre, musei e gallerie d’arte perché il vostro sistema fa luce sul futuro ma anche sul passato. È stato usato, infatti, anche per fare indagini diagnostiche per immagini, non invasive, su alcune opere d’arte dei più grandi maestri del passato: Leonardo, Giotto, Caravaggio… 

E Giovanna Garzoni. Proprio quest’anno, in occasione della mostra a Palazzo Reale sulle donne del Barocco, “Le Signore dell’Arte”, abbiamo avuto l’opportunità di studiare due tempere su pergamena realizzate da Giovanna Garzoni intorno al 1635. 

Di fatto, le stesse tecniche di imaging diagnostico nel non visibile, quindi radiografie, radiazione a infrarosso, imaging di fluorescenza stimolata da ultravioletto, che si usano in medicina per studiare il corpo umano in modo non invasivo, si possono usare per studiare le opere d’arte. E così siamo stati coinvolti in grandi progetti e avuto l’opportunità di lavorare su Giotto e Caravaggio, a Palazzo Reale, e su dipinti leonardeschi esposti al Museo Poldi Pezzoli in occasione della mostra “Leonardo e la Madonna Litta”.

 

In che modo?

Applichiamo le nostre elaborazioni avanzate, sviluppate in ambito medico, alle immagini diagnostiche delle opere e scopriamo così informazioni nascoste nelle loro trame. Informazioni che riguardano i materiali biologici usati dai maestri dell’arte antica, le caratteristiche dei supporti lignei e delle tele, delle preparazioni su cui è stata stesa la pittura. Possiamo migliorare la lettura di tali immagini in modo da rilevare se ci sono stati dei pentimenti dell’artista potendo “vedere” i disegni preparatori fatti al carboncino, riusciamo a caratterizzare attraverso immagini dei materiali la tavolozza dei pigmenti impiegati e possiamo scoprire se ci sono stati interventi di restauro. Per esempio, attraverso le nostre elaborazioni delle radiografie del dipinto “San Giovanni” di Caravaggio, abbiamo scoperto che vi era un agnello nascosto a cui il Santo rivolgeva lo sguardo, successivamente coperto da Caravaggio con uno sfondo boschivo. 

È un aspetto affascinante del nostro lavoro e ci soddisfa molto portarlo avanti, perché unisce scienza, ricerca (da questi interventi nascono anche pubblicazioni scientifiche), e corporate and social responsability, riuscendo a condividere con il grande pubblico informazioni che fino a poco fa erano riservate solo agli esperti del settore, come i restauratori o i critici d’arte.

Tecnovisionarie

“DONNE SCIENZA INVENZIONE CARRIERA – Progetto di Gianna Martinengo”

Dalle esperienze alle skill al role model, viaggio tra le professioniste e scienziate che stanno facendo progredire il mondo della scienza italiano e internazionale. Interviste a “mente aperta” anticipate da un viaggio nei diversi mercati dell’innovazione. Uno spazio sarà dedicato alle trentenni , giovani donne – professioniste e scienziate – che affrontano il futuro con coraggio e determinazione.

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