Marinella Levi: una maker tecnovisionaria che progetta i materiali del futuro e invita i giovani a fare

“Sono ipermetrope: cioè non vedo bene da vicino ma vedo benissimo da lontano”. Quello che è un difetto della vista, per Marinella Levi è un punto di forza nella vita. Guardare un po’ più in là, andare oltre, puntare lo sguardo verso il futuro, per progettarlo, innovando il presente.
Marinella Levi è una visionaria. Impegnata in prima linea nel trasferimento tecnologico e nella condivisione di idee che possano cambiare il mondo. Fortemente convinta dell’importanza della cosiddetta terza missione dell’Università: dialogare con la società per contribuire alla valorizzazione economica della conoscenza, così come al suo sviluppo culturale e sociale.
Docente di Scienza e tecnologia dei materiali al Politecnico di Milano, dal 2001 insegna anche alla Scuola del Design. Ai suoi studenti e alle sue studentesse manda un messaggio molto chiaro: “Fare o non fare. Non esiste provare”. Citando il maestro Yoda della saga stellare, sprona i giovani a fare cose, convinta che il saper fare, che la rivoluzione del fare, possa rilanciare l’economia e salvare il pianeta. Come? Anche progettando e utilizzando nuovi materiali.
Pietra, ferro, silicio, grafene… I materiali hanno segnato la nostra storia e la scoperta di nuovi materiali ha praticamente scandito il progresso dell’umanità. Come saranno i materiali del futuro?
«Se pensiamo alle caratteristiche dei materiali, dall’età della pietra in poi abbiamo sempre dovuto fare i conti con le materie prime disponibili in natura: trasformandole, diventano materiali. La materia, infatti, diventa materiale quando entra all’interno di un progetto e si trasforma in un prodotto. Da allora ne abbiamo fatta di strada: se siamo andati sulla Luna, è anche grazie al fondamentale contributo dei materiali. Ora però dobbiamo fare necessariamente i conti col fatto che alcune materie prime stanno diventando scarse, anche perché le abbiamo usate in maniera sconsiderata. Inevitabilmente quindi, pensando al futuro, dobbiamo porre maggiore attenzione alla scarsità delle risorse che ci servono per progettare e realizzare i materiali.
Oltre alle materie prime, dobbiamo considerare l’energia, perché per diventare tali a partire dalle materie prime, i materiali richiedono energia. Sempre. Chi più chi meno. Ne richiede tantissima per esempio la produzione di una lattina di alluminio partendo dalla bauxite. E anche per questo è importante ricordare sempre, anche quando si parla di scienza e tecnologia dei materiali o di economia circolare, il noto paradigma della sostenibilità ambientale: RIDUCI, RIUSA, RIPARA, RICICLA».
Quindi è fondamentale puntare su processi che consumino meno energia per trasformare le materie prime in materiali sostenibili?
«Esattamente. Senza trascurare il fatto che i materiali giusti usati in applicazioni giuste possono farci risparmiare tanta energia e contribuire così al perseguimento della sostenibilità. Si pensi per esempio ai materiali che coibentano, che isolano le abitazioni, consentendo di trattenere e non disperdere il calore. O alla produzione, grazie a nuovi materiali, di nuove batterie per le auto elettriche che sostituiranno quelle attuali, oggi ancora tanto pesanti e ingombranti da renderle meno fruibili di quanto vorremmo. E infine, pensando ai materiali del futuro, non si può non considerarne le modalità di smaltimento, o meglio di gestione del fine vita».
In sostanza, per un futuro più sostenibile, bisognerebbe abbandonare “l’usa e getta” e far rientrare nei cicli produttivi i rifiuti prodotti e gli scarti, come nuova materia o nuova energia, per far curvare l’economia. Insomma, economia circolare deve essere la parola chiave?
«È una parola oggi forse un po’ abusata ma effettivamente, se ben collocata, è la parola magica pensando al fine vita di un prodotto. Il punto è che i materiali del futuro dovranno essere sempre più pensati e progettati per entrare realmente in processi di economia circolare che garantiscano la sostenibilità ambientale. Perché se non pensiamo a un approccio circolare fin da quando progettiamo il materiale e il prodotto, è poi difficile intervenire seriamente, e seriamente vuol dire, per esempio, consumando meno energia di quella che consumeremmo usando materia vergine e con costi accettabili dal mercato».
Marinella Levi, il suo Dipartimento è intitolato al premio Nobel Giulio Natta, l’inventore del Moplen, la plastica che ha rivoluzionato l’industria dei polimeri di massa, e quindi la nostra vita. Da innovazione rivoluzionaria, però, la plastica oggi è la gran sorvegliata speciale di cui si parla solo come pericoloso rifiuto che soffoca il pianeta. Una riflessione su questo.
«Innanzitutto, parlare di plastica solo come qualcosa che soffoca il pianeta è politicamente e tecnologicamente scorretto, è un concetto che può nascondere posizioni poco trasparenti, o comunque poco informate. Accade anche perché quando si parla di ambiente, un capro espiatorio può essere molto utile, e prendersela con la plastica è molto facile. Effettivamente noi troviamo la plastica ovunque, e quindi, purtroppo, anche sulle spiagge, in mare, dentro la pancia delle tartarughe… Ma accusare la plastica del soffocamento del pianeta solo in funzione della sua pervasività è molto scorretto.
Solo il 4-5% del petrolio estratto e immesso sul mercato viene usato per la produzione di plastica. Il resto, per circa la metà è destinato ai trasporti e l’altra metà alla produzione di energia per il raffrescamento e il riscaldamento di abitazioni ed edifici in generale. E trasporto e climatizzazione sappiamo benissimo che sono tra i principali responsabili dell’emissione di tonnellate e tonnellate di CO2. Detto questo, non c’è dubbio che consumando petrolio inquiniamo e sottraiamo materie prime scarse. Non c’è dubbio che la plastica, soprattutto quella monouso, sia un problema, ma lo diventa per l’uso improprio e l’abuso che ne facciamo noi. Siamo noi ad abbandonarla dove non dovremmo: la plastica infatti non ha ali, né piedi, né pinne, né branchie e se finisce dove finisce è colpa di un’umanità stupida, e poco consapevole che pensa al presente e non alle sorti delle generazioni future.
È necessario quindi cambiare abitudini e caso mai sanzionare i comportamenti scorretti, anzichè lanciare slogan molto poco realistici, come l’ormai abusato #plasticfree. Se in questo momento, proprio mentre state leggendo, eliminaste tutta la plastica che avete intorno rimarrebbe ben poco. Via computer, via smartphone, via la poltrona, il sedile, il divano su cui siete seduti… Senza plastica non parliamo al telefono, non accendiamo, né spegniamo la luce e, a ben guardare, rimaniamo anche pressoché nudi.
Detto questo, dobbiamo essere consapevoli che l’uso indiscriminato di materie prime scarse è un problema, e che l’inquinamento è un problema. Ma caricare solo la plastica di questa responsabilità, davvero non è corretto.Si pensi per esempio ai metalli pesanti: i telefonini sono pieni di stagno, cromo, piombo… che sono materie scarse e, se smaltite male inquinano mari, fiumi e finiscono, tra l’altro, con l’essere ingeriti dai pesci, possono andare in bioaccumulo per entrare così nella nostra catena alimentare».
Cosa fare allora per una chimica verde, più sostenibile ed ecofriendly
«I materiali, tutti i materiali, devono diventare più sostenibili. Necessariamente. Ma è fuorviante pensare che pulire le spiagge dalle bottiglie salvi il pianeta, se solo il 4% del petrolio estratto si trasforma in plastica. La chimica dei materiali può fare tanto e di fatto la chimica cosiddetta verde o sostenibile già ci offre un ventaglio variegato di opportunità: dall’uso di materie prime più sostenibili del petrolio, dette biobased perché fondate sull’impiego di biomasse, e dunque rinnovabili, all’intensificazione di processo, cioè impianti più piccoli, magari delocalizzati e gestiti in parallelo utilizzando tecnologie digitali, che consumano meno energia e hanno rese più elevate, fino all’utilizzo degli scarti delle filiere, per esempio alimentari, come componenti per la realizzazione di nuovi materiali compositi. Oltre a tutto ciò, però, bisogna anche investire sulla cultura e sull’educazione dei cittadini in modo che materiali, energia e cibo siano usati in modo più razionale».
Tecnologia e ambiente: anche la stampa 3D, tecnologia considerata alla base di una nuova rivoluzione industriale, può fare la differenza nel perseguire la sostenibilità ambientale?
«Sì, la stampa 3D può essere uno strumento straordinario, ad esempio per fare di più con meno. Ma vorrei provare a fare chiarezza. Io mi occupo di plastica da 40 anni e di stampa 3D da ormai quasi 10. Ma la stampa 3D non è nata certo 10 anni fa: è stata brevettata negli anni 80. Per 25 anni è stata pressoché usata per fare prototipazione rapida. Poi la svolta nel 2010 quando, scaduti i brevetti delle prime macchine, la comunità dei maker ha contribuito alla sua diffusione. In tal modo, quelle stampanti che prima erano accessibili a pochi sono diventate alla portata di tutti, o almeno di molti. Oggi infatti spendendo meno che per uno smartphone di alta gamma si possono avere ottime stampanti 3D. Il punto è che l’era delle stampanti low cost ha innescato la convinzione che con la stampa 3D si potesse fare tutto».
Come funziona la stampante 3D? Può fare tutto?
«Usare una stampante 3D non è come usare una lavatrice: non basta schiacciare un bottone per avere i panni puliti. Una stampante è un oggetto che richiede un contributo umano, ancora, e, vorrei dire, per fortuna, molto rilevante, nonostante la sua natura intrinsecamente digitale, o 4.0, come si usa dire. Il contributo è fondamentale soprattutto per quanto riguarda il disegno dell’oggetto. Un oggetto, infatti, per essere stampato in 3D richiede tre passaggi: il disegno 3D al computer, la sua trasformazione in un codice macchina e infine la stampa.
Se la trasformazione del disegno in codice è un passaggio risolto abbastanza agevolmente grazie ai software gratuiti messi in condivisione dai maker, disegnare prima e usare la macchina poi sono due abilità che attengono al saper fare, abilità che dobbiamo necessariamente recuperare. Dobbiamo recuperare la dimensione del fare. Reintrodurla a scuola, nelle scuole di ogni ordine e grado. Perché se noi siamo cresciuti all’insegna del comprare, usare e buttare, ora è necessario cambiare paradigma e adottare quello dell’economia circolare. Anche e soprattutto in vista della sostenibilità delle generazioni future, perché non dimentichiamo mai che ‘noi abbiamo ricevuto la terra in dono dai nostri padri e in prestito dai nostri figli’».
In sostanza, con la stampa 3D potremmo fare le cose che ci servono, solo quando ci servono, nella quantità necessaria. Niente sprechi, dunque, con tutto ciò che ne consegue?
«Rispondo raccontando un aneddoto. Riguarda mio nipote. Quando aveva 8 anni – oggi ne ha 17 – gli feci vedere una delle mie prime stampanti 3D. E gli chiesi, potendo stampare qualsiasi cosa, cosa avrebbe voluto stampare. Matteo mi rispose: “Zia, un mattoncino Lego, quello da uno, perché quando mi serve non lo trovo mai”, perché Andrea, il fratellino più piccolo, glieli perdeva puntualmente. Morale della favola? La stampa 3D serve a fare quello che serve, quando serve, né di più né di meno, né prima né dopo, senza sprecare risorse.
Questo è intrinsecamente legato alle abitudini di consumo e innesca un cambiamento nel rapporto utente-produttore-oggetto: perché se troviamo facilmente sullo scaffale dei supermercati un oggetto e lo paghiamo poco, si pensi appunto alla bottiglietta d’acqua di plastica, facilmente lo utilizziamo, e altrettanto facilmente ce ne liberiamo. Se l’oggetto invece lo fabbrichiamo noi, solo quando ci serve, siamo più consapevoli di quanto e cosa stiamo consumando, e, in questo senso, possiamo anche sviluppare una forma di affezione all’oggetto che potrà indurci a conservarlo più a lungo».
Per questo, consapevole della portata rivoluzionaria della stampa 3D, ha fondato e dirige +LAB, il laboratorio di stampa 3D del Politecnico di Milano?
«In fondo mi sono sempre occupata di aspetti di frontiera della plastica e ho sempre percorso strade poco battute, con entusiasmo: per la tesi di laurea, per esempio, era il 1986, ho lavorato sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere il materiale delle pareti del cuore artificiale quando il cuore artificiale era ancora fantascienza. +LAB nasce da una tesi di laurea e dall’entusiasmo di un mio studente del corso di studi di Design and Engineering. Era il 2012, e mi chiese di poter fare una tesi sulla stampa 3D. Comprai così la prima stampante, la pagai 700 dollari e da lì è cominciato tutto. Oggi +LAB ne ha 15 di stampanti, qui decine e decine di studenti hanno mosso i primi passi e la cosa di cui mi onoro di più è la nascita del nostro spin off. Da +LAB è nata infatti Moi Composites, che stampa in 3D oggetti resistenti e personalizzati utilizzando robot e materiali compositi avanzati».

Proprio da Moi Composites è nata MAMBO, una barca stampata in 3D, la prima realizzata in vetroresina. Lunga 6,5 metri e dal peso di 800 chili, è stata varata al Salone Nautico di Genova 2020 ed è realmente in grado di navigare. Giusto?
«MAMBO è stata realizzata con un processo di stampa 3D che abbiamo brevettato, si chiama Continuous Fiber Manufacturing (CFM) ed è un sistema realmente innovativo che, grazie all’utilizzo di robot sapientemente guidati da algoritmi, consente di stampare materiali compositi con prestazioni meccaniche comparabili alle tradizionali, e forme finora impensabili. È stata varata a Genova e, con il suo motore a 115 cavalli, può effettivamente navigare perché, a differenza delle altre barche stampate in 3D che l’hanno preceduta, che erano in plastica, MAMBO è in vetroresina, un tipo di plastica rinforzata con fibre di vetro, che è il materiale d’elezione per la nautica da diporto».
Avete presentato MAMBO non solo come il primo scafo realizzato con tecniche di produzione tridimensionale innovative pronto a essere realmente utilizzato in navigazione, ma anche come una finestra su un nuovo mare di possibilità, come l’invito a una riflessione sul modo in cui giudichiamo impossibile la realizzazione di un’idea. Insomma, è un esempio concreto del suo slogan “Se puoi sognarlo, puoi stamparlo”?
«Sì, anche se io più che sognatrice mi sento proprio una tecnovisionaria: perché mi piace guardare lontano, e andare oltre con la mente e con il cuore, tenendo i piedi bene per terra, perché solo così si può dare concretezza alle idee e ai sogni. Creando connessioni con la realtà. Con la consapevolezza che tanto più la visione è forte e futuribile tanto più può incontrare ostacoli, perché il presente può non essere pronto ad accogliere le novità. Si pensi alla stampa 3D: l’industria manifatturiera tradizionale non la vede di buon occhio perché ha impiegato decenni ad arrivare dove è arrivata, ha fatto investimenti e formazione per arrivare dov’è, per riuscire a produrre auto, aerei, navi… Una sorta di iniziale inerzia tecnologica è comprensibile. Ma per innovare bisogna avere il coraggio di proporre soluzioni che non saranno accolte da tutti e subito in modo favorevole».
Qual è la sua prossima sfida? Nuovi materiali?
«Da piccola volevo fare tre cose: la parrucchiera, la rivoluzionaria e la maestra. Alla soglia dei 60 anni (li compirò il prossimo marzo) posso dire di aver realizzato i miei sogni. I capelli rossi me li tingo da sola, ho sempre fatto cose, anche in ambito accademico, non propriamente considerate nel mainstream e da 40 anni insegno. Sono entrata al Politecnico di Milano il 1° ottobre 1980. Essere maestra mi onora. È il modo in cui ho contribuito di più alla società.
L’insegnamento è una grande responsabilità e un lavoro nobile. Perché il frutto del nostro lavoro sono i nostri allievi, i nostri figli, che sono unanimemente riconosciuti a livello internazionale tra i più preparati. E tutti se li contendono. Penso a centri di ricerca e università di tutto il mondo, uno su tutti, il Cern di Ginevra guidato da una italiana straordinaria, Fabiola Gianotti.
Quindi la mia prossima sfida è rallentare su altri fronti, per impegnarmi in modo ancora più ampio nella formazione. Magari usando di più e meglio anche i social, per raggiungere chi ha voglia di imparare e riflettere anche al di fuori delle aule universitarie. La scienza è il fondamento del nostro futuro e oggi più che mai, che assistiamo a un pericoloso negazionismo e a una grave caccia alle streghe, c’è bisogno di cultura scientifica per arginare questa deriva. E io sono più che mai convinta di una cosa: se puoi sognarlo, puoi insegnarlo».