Microplastiche e altre specie aliene nei nostri mari: la parola alla biologa marina Valentina Tirelli

Dall’Erasmus in Francia alle spedizioni oceanografiche nei mari polari a caccia di microplastiche. Valentina Tirelli, professione biologa marina, è profondamente grata a Sofia Corradi. “A lei si deve infatti il Programma Erasmus”, che dal 1987 promuove la mobilità studentesca in Europa all’insegna della cultura e dell’educazione, quali preziosi strumenti di dialogo e di sviluppo sociale. “L’Erasmus mi ha cambiato la vita” dice.
«Sono partita nel febbraio del 1992, quindi sono stata tra i primissimi a usufruire degli scambi Erasmus. E devo dire che è stata una tappa fondamentale del mio percorso di crescita, personale e professionale. Perché in quei mesi trascorsi a Villefranche sur Mer ho assaporato la bellezza della condivisione, di culture diverse e della stessa passione, quella per il mare, e ho avuto l’occasione di apprezzare giorno per giorno la ricchezza del confronto che è, in fondo, l’essenza del mio lavoro anche oggi: il confronto con colleghi e colleghe in ogni angolo del mondo è la conferma che la scienza non ha confini».

Valentina Tirelli, dal 2006 ricercatrice all’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste, ha scoperto però che anche l’inquinamento, purtroppo, non ha confini. Insieme ad Amy Lusher, una collega dell’istituto irlandese Galway-Mayo Institute of Technology, ha documentato infatti per la prima volta la presenza di microplastiche nelle acque artiche, considerate incontaminate almeno fino ad allora.
«È stato un risultato sorprendente che abbiamo ottenuto analizzando campioni delle acque prelevate dalla Norvegia fino alle isole Svalbard, durante una spedizione di ricerca nel corso dell’estate 2014. Ricordo ancora l’entusiasmo e la frenesia per prelevare, notte e giorno, i campioni».
E così per la prima volta, come illustrato in un articolo sulla rivista Scientific Reports, avete documentato la contaminazione da microplastiche anche delle acque polari artiche. Ma cosa sono le microplastiche?
«Le microplastiche sono particelle di plastica di dimensioni inferiori ai cinque millimetri, il cui accumulo nei mari a qualsiasi latitudine è ormai un problema noto e preoccupante. Grazie a quella spedizione, sei anni fa, abbiamo evidenziato per la prima volta che avevano raggiunto anche le acque dell’artico. Ne abbiamo riscontrato la presenza sia in superficie sia a sei metri di profondità. Abbiamo dovuto dunque prendere coscienza della presenza della plastica anche nei mari delle aree più isolate del pianeta. Il mese prima della nostra spedizione, microplastiche erano state trovate in carote di ghiaccio artico e purtroppo negli anni successivi microplastiche sono state scoperte anche in molte specie marine che abitano i poli. Parlo di poli perché anche in Antartide, che è ancora, di gran lunga, la regione più remota e meno esposta all’attività umana, sono stati trovati frammenti di plastica».

A preoccupare non è solo l’impatto sull’ecosistema e sugli organismi marini, ma anche la possibilità che questi frammenti entrino nella catena alimentare e quindi finiscano sulla nostra tavola. Anche se, come evidenza per esempio l’European Food Safety Authority, i potenziali effetti tossici sulla salute umana sono ancora da chiarire.
«In effetti le microplastiche possono creare un grande danno all’ecosistema marino, impattando sulla vita di molte specie marine. Gli studi ci dicono per esempio che i microframmenti di plastica presenti in mare sono degli attrattori di inquinanti: in pratica, sulla loro superficie si accumulano inquinanti e sostanze potenzialmente tossiche che così vengono veicolate agli animali marini.

Il mio interesse per le microplastiche nasce dal fatto che hanno dimensioni molto simili al plancton: di fatto quando prelevavo campioni di acqua prelevavo zooplancton e plastiche. E lo zooplancton, che è costituito da piccoli organismi che si nutrono in gran parte filtrando l’acqua, può ingerire microplastiche. E così via via dallo zooplancton, che è il primo anello della catena alimentare (per esempio nelle zone polari gran parte dello zooplantcon è costituito dai krill di cui si cibano le balene), le microplastiche possono arrivare ai pesci e dai pesci fino a noi. Ma al momento devono ancora essere chiariti gli effetti nocivi sulla salute umana».

Oggi lei è molto impegnata anche in attività di divulgazione sul fronte plastica in mare e inquinamento dell’ambiente marino: incontra studenti e studentesse, partecipa a festival e a vari eventi divulgativi.
«È vero, perché non può esserci alcuna salvaguardia dell’ambiente marino senza la sua conoscenza e la comprensione di ciò che più ne compromette lo stato di salute. Penso che parte della soluzione del problema causato dalle microplastiche in mare, perché di un grosso problema si tratta, sia diffondere informazione e sensibilizzare le persone, i più giovani ma non solo, affinché riducano l’uso della plastica e soprattutto contribuiscano a diminuirne drasticamente l’arrivo in mare.

Noi abbiamo creato il problema, inquinando, e noi dobbiamo essere parte della soluzione. Ricordiamoci però che l’inquinamento da plastica purtroppo non è il solo problema che riguarda i nostri mari. Si pensi, per esempio, alla perdita di biodiversità marina (dovuta principalmente all’impatto della pesca eccessiva e alla distruzione degli habitat di molte specie marine) e all’acidificazione degli oceani».

A proposito di fattori che stressano l’ambiente marino, oggi lei si occupa di specie aliene. In particolare studia le cosiddette noci di mare: cosa sono e perché la loro presenza nel nostro mare è così preoccupante?
«Le noci di mare appartengono alla specie Mnemiopsis leidyi e sono organismi gelatinosi che, a colpo d’occhio, sembrano simili alle meduse ma sono ctenofori. A differenza delle meduse non hanno cellule urticanti e quindi sono innocue a contatto con la nostra pelle. Possono però avere un impatto negativo sull’ecosistema e sulle attività alieutiche».
In altre parole le noci di mare possono influenzare pesca?
«Sì. Nel mare Adriatico, abbiamo assistito all’esplosione demografica di questi organismi gelatinosi dall’estate del 2016. In particolare nella laguna di Grado e Marano, abbiamo assistito a una vera e propria invasione di noci di mare che ha costretto molti pescatori a cessare la loro attività durante i mesi estivi. La presenza di questa specie preoccupa molto in quanto si è visto che in altri mari, dove questa specie aliena è stata introdotta accidentalmente, ha stravolto l’ecosistema marino: per esempio nel mar Nero, l’arrivo di Mnemiopsis ha contribuito al collasso totale della pesca dell’acciuga».

Valentina Tirelli, perché si è arrivati a questo punto?
«Perché è una specie ermafrodita che si riproduce con estrema facilità e molto rapidamente – non ha bisogno di partner e in un solo giorno può produrre migliaia di uova – ed è molto vorace: preda zooplancton, uova e piccole larve di pesci e molluschi. Da un lato dunque altera profondamente la catena alimentare sottraendo cibo (lo zooplancton) alle specie planctivore (come appunto acciughe e sardine) e dall’altro ne preda i primi stadi di sviluppo. Inoltre, quando questi organismi gelatinosi finiscono nei cogolli (reti utilizzate per la pesca artigianale in laguna) ne rendono difficile se non impossibile l’uso».
Di fatto da dove arrivano le noci di mare?
«Le noci di mare (Mnemiopsis leidyi) sono originarie delle coste atlantiche americane. Hanno straordinarie capacità di adattamento e, riproducendosi molto velocemente, in assenza di predatori efficaci, sono estremamente invasive. Molto probabilmente sono state veicolate nei mari europei attraverso le acque di zavorra delle navi.

Per chi non lo sapesse, le acque di zavorra vengono caricate a bordo per stabilizzare l’assetto della nave che, una volta giunta a destinazione e scaricato il carico, si libera anche delle acque di zavorra. Il punto è che queste acque non sono inerti, ma contengono vita e così trasportano organismi da un capo all’altro del mondo. Alcuni di questi organismi alieni, cioè non nativi, possono essere particolarmente infestanti e creare di conseguenza squilibri che è necessario monitorare. Ebbene, la noce di mare è stata inserita nella lista delle 100 specie invasive più dannose al mondo».
Insomma, l’ecosistema marino è sempre più fragile?
«Sicuramente con le nostre attività stiamo contribuendo ad accelerare alcuni cambiamenti del nostro pianeta e stiamo causando stress al mondo sommerso. Come dicevo prima, la ricerca è importante perché c’è ancora tanto da conoscere e la conoscenza del mondo marino è fondamentale per poterne proteggere la biodiversità».
*Fonte: Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile-Eumetra MR.